Proclama di Francesco II del 5 settembre 1860

Proclama di Francesco II del 5 settembre 1860

di Lucia Di Mauro

Napoli 05 settembre 2016

“Franceschiello”, con questo nomignolo dispregiativo la falsa storia scritta dagli usurpatori ce lo ha consegnato, per ridicolizzarlo svilendo il valore dell’uomo e del re. Definito come “ragazzo” indifeso e debole, come una persona bigotta, pavida ed incapace, operò, al contrario, delle scelte coraggiose e di gran carattere. Avrebbe potuto andarsene prima conservando le sue ricchezze, oppure usare queste ultime per corrompere quelli che avrebbero avuto il potere di andare in suo aiuto, invece, fino alla fine, volle rimanere accanto al suo popolo e quando gli fu proposto di espandere i domini del Regno delle Due Sicilie mediante la spartizione (insieme con il Piemonte) dei territori dello Stato Pontificio, rispose: «Chella è robba d’ ‘o Papa!», inimicandosi la massoneria.
“Francesco II resta un esempio e un riferimento per chiunque voglia ritrovare le tracce di
un’identità culturale sepolta sotto quasi 150 anni di menzogne e ideologie, ma ancora viva e in
attesa di essere portata alla luce”. (Il Giglio)

Fra i doveri prescritti ai Re, quelli dei giorni di sventura sono i più grandiosi e solenni, e io intendo di compierli con rassegnazione scevra di debolezza, con animo sereno e fiducioso, quale si addice al discendente di tanti Monarchi. A tale uopo rivolgo ancora una volta la mia voce al popolo di questa Metropoli, da cui debbo ora allontanarmi con dolore.

Una guerra ingiusta e contro la ragione delle genti ha invaso i miei stati, nonostante ch’io fossi in pace con tutte le potenze europee.

I mutati ordini governativi, la mia adesione ai grandi principii nazionali ed italiani non valsero ad allontanarla, che anzi la necessità di difendere la integrità dello Stato trascinò seco avvenimenti che ho sempre deplorato. Onde io protesto solennemente contro queste inqualificabili ostilità, sulle quali pronunzierà il suo severo giudizio l’età presente e la futura.

Il corpo diplomatico residente presso la mia persona seppe, fin dal principio di questa inaudita invasione, da quali sentimenti era compreso l’animo mio per tutti i miei popoli, e per questa illustre città, cioè garentirla dalle rovine e dalla guerra, salvare i suoi abitanti e loro proprietà, i sacri templi, i monumenti, gli stabilimenti pubblici, le collezioni di arte, e tutto quello che forma il patrimonio della sua civiltà e della sua grandezza, e che appartenendo alle generazioni future è superiore alle passioni di un tempo.

Questa parola è giunta ormai l’ora di compierla. La guerra si avvicina alle mura della città, e con dolore ineffabile io mi allontano, con una parte dell’esercito, trasportandomi là dove la difesa dei miei diritti mi chiama. L’altra parte di esso resta per contribuire, in concorso con l’onorevole Guardia Nazionale, alla inviolabilità ed incolumità della capitale, che come un palladio sacro raccomando allo zelo del Ministero. E chieggo all’onore ed al civismo del Sindaco di Napoli e del Comandante della stessa Guardia cittadina di risparmiare a questa Patria carissima gli orrori dei disordini interni ed i disastri della guerra civile; al quale uopo concedo a questi ultimi tutte le necessario e più estese facoltà.

Discendente da una Dinastia che per ben 126 anni regnò in queste contrade continentali, dopo averle salvate dagli orrori di un lungo governo viceregnale, i miei affetti sono qui. Io sono napoletano, ne potrei senza grave rammarico dirigere parole di addio ai miei amatissimi popoli, ai miei compatriotti.

Qualunque sarà il mio destino, prospero od avverso, serberò sempre per essi forti ed amorevoli rimembranze. Raccomando loro la concordia, la pace, la santità dei doveri cittadini. Che uno smodato zelo per la mia Corona non diventi face di turbolenze. Sia che per le sorti della presen te guerra io ritorni in breve fra voi, o in ogni altro tempo in cui piacerà alla giustizia di Dio restituirmi al Trono dei miei maggiori, fatto più splendido dalle libere istituzioni di cui l’ho irrevocabilmente circondato, quello che imploro da ora è rivedere i miei popoli concordi, forti e felici.

Francesco

Napoli, 5 settembre 1860